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Noi siamo qui. Le esigenze formative nel lavoro che cambia.

Il binomio “giovani e lavoro”, per un lungo periodo, è stato il binomio per antonomasia dei comizi nelle campagne elettorali di tutti i partiti.

Oggi, “comizio” è una parola desueta, le campagne elettorali sono divenute impalpabili, i partiti sono scomparsi dalla società; i giovani sono sempre meno, il lavoro è parcellizzato e cambiato.

Questi elementi hanno “liberato” il binomio da una certa retorica a buon mercato; tuttavia, rimane di primaria importanza l’occupazione giovanile, quale elemento di benessere generale e pietra angolare della società futura.

L’ultimo bollettino Istat (novembre 2022) ci dice di un tasso di disoccupazione giovanile in calo al 23,0% (-0,6%), al netto di un calo del numero di persone che cercano lavoro (-0,8%) fra le donne, gli uomini e gli under 35, con un aumento del numero degli inattivi (+ 0,4%) nella medesima popolazione (Occupati e disoccupati – Novembre 2022).

I dati dell’Istat relativi all’ultimo trimestre danno quindi ulteriore prova di numerosi rapporti di organizzazioni sindacali e non governative sulla condizione lavorativa nel nostro Paese, in particolare dei più giovani, che spesso rientrano nella cosiddetta categoria dei “NEET”.

Secondo l’ultimo rapporto di CGIL e Action Aid Italia, nel nostro Paese sono ben 3 milioni fra i 17 e i 34 anni che non studiano né lavorano. Questo dato ci dà un (triste) primato in Europa e va a configurare una situazione di rischio sociale e aumento delle disuguaglianze, in un contesto lavorativo in costante trasfigurazione.

Dalla metà degli anni ’90, con il “pacchetto Treu”, anche in Italia si comincia a parlare di “flessibilità del lavoro”: in un Paese storicamente caratterizzato dal “posto fisso” e dalla “stabilità prima di tutto” (elevatissimo tasso di proprietari di casa, importante risparmio privato)l’introduzione del concetto di flessibilità nel mondo del lavoro, l’idea di “contratti a tempo determinato”, “lavoro a chiamata” rappresentano un punto di rottura che non mancherà di generare forti elementi distorsivi, che saranno poi qualificati sotto il nome di “precarietà”.

Nel corso degli anni, il legislatore ha proseguito sulla strada segnata della flessibilità – legge Biagi, Jobs Act – e ha cercato di adeguare, per la verità spesso con misure tampone, più che con riforme strutturali, le politiche sociali – i vari bonus mamma, bebè, baby sitter, asilo nido in merito alla genitorialità; Aspi, mini- Aspi, poi Naspi in merito allo status di disoccupazione; Reddito di Inclusione, poi Reddito di Cittadinanza in relazione alla condizione di inoccupazione – per mitigare gli effetti legati alla mancanza di stabilità.

Nel frattempo, la pandemia e l’automazione hanno introdotto e stanno introducendo schock economici e mutazioni dei comportamenti e delle esigenze di lavoratrici, lavoratori e aziende.

L’home working ha rappresentato una novità significativa per l’organizzazione del lavoro, anche se non tutte le aziende sembrano intenzionate a far leva su questa dimensione per ripensare i propri processi di lavorazione; tuttavia, gli indubbi vantaggi in merito ai costi aziendali e le migliorie nella qualità di vita dei lavoratori, lasciano presagire che questa dimensione avrà sempre maggiore rilevanza negli anni a venire (Fonte Osservatori.net).

Allo stesso tempo, un certo orientamento alla flessibilità del lavoro, inteso come una spinta a cambiare per trovare ciò che si auspica di meglio per una particolare fase della propria vita, sembra essere stata fatta propria da una sempre maggiore fetta di lavoratrici e lavoratori, che tendono più facilmente a lasciare il proprio posto (Fonte Il Sole 24 Ore).

Affiancano poi questi cambiamenti che potremmo definire “comportamentali”, quelli che a tutti gli effetti sono dei cambiamenti “strutturali” in merito all’introduzione dell’automazione nelle dinamiche organizzative e nei processi produttivi, con effetti che possono essere distorsivi del mercato del lavoro stesso e porteranno nel lungo periodo a dover necessariamente ridisegnare il mondo del lavoro: la lunga e lenta uscita dal fordismo potrebbe trovare fra robot e intelligenza artificiale il suo “punto di caduta” (Fonte Agenda Digitale).

In tutto questo contesto, acquisisce ulteriore importanza la formazione, necessaria a individuare i profili professionali che richiedono e continueranno a richiedere “la mano dell’uomo” e le skills da possedere in un mondo che cambia.

Cambiamenti di questa portata richiedono che si arrivi a ripensare l’intero sistema scolastico e formativo, ma se questo è possibile nel lungo periodo e auspicabile nel medio, di certo non avviene di punto in bianco.

Potremmo in conclusione dire che fa prepotente ritorno sulla scena il concetto di qualità: qualità delle competenze del lavoratore e qualità della vita che offre una determinata dimensione lavorativa e, infatti, importanti sono gli approcci al lavoro di giovani qualificati, meno “disposti a tutto” rispetto alle sorelle e i fratelli maggiori, pur “di avere un posto” (Fonte UILPA) e di grandi aziende che puntano a garantire oltre alla remunerazione, una buona qualità della vita (Fonte Repubblica.it).

Qualità, flessibilità, stabilità: queste potrebbero dunque essere le stelle polari di chi oggi si prepara al domani. Per agguantarle è necessario riuscire a coniugare al futuro, come fossero verbi, le parole passione e occasione.

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